Neuroetica

Cresa NeuroeticaGran parte della tradizione morale ha un approccio di tipo razionalista, ossia ritiene che le nostre scelte su che cosa sia giusto o si debba fare dipendano da una valutazione attenta delle ragioni in favore dell’uno o dell’altro corso d’azione; si assume che questa valutazione avvenga alla luce di teorie generali sulla vita buona e sulla virtù e si richiede che essa venga influenzata il meno possibile da interferenze di tipo emotivo.
La ricerca neuroscientifica contemporanea mette in dubbio la plausibilità descrittiva di questo modello, suggerendo invece che larga parte dei nostri giudizi e delle nostre decisioni dipendano da meccanismi di risposta automatica e non deliberata, nei quali svolgono un ruolo decisivo le aree cerebrali associate all’esperienza emotiva. Alcuni ricercatori avanzano addirittura la proposta di rovesciare totalmente il modello tradizionale di comprensione della nostra esperienza morale, suggerendo che il ragionamento morale, con la sua ponderazione di ragioni che giustificano il giudizio e la scelta di agire, venga attivato soltanto in un momento successivo al giudizio o all’azione, qualora nei casi in cui vi sia la necessità sociale di presentare una giustificazione, e che quindi abbia essenzialmente la funzione di giustificare un giudizio già adottato su altra base. Gli studi sui pazienti ventromediali sembrano inoltre fornire ragioni per caratterizzare il rapporto tra attivazioni cerebrali nell’area ventromediale della corteccia prefrontale, legate alle emozioni sociali, e giudizi morali non nel senso di una correlazione, ma in quello di un rapporto di causalità dai primi ai secondi; infatti, la mancanza di una reazione emotiva in questi pazienti, a causa del danno neurologico focale, aumenta sensibilmente la tendenza a fornire risposte morali di tipo computazionale, attente unicamente alle conseguenze delle diverse scelte in termini di danni causati, o di vite umane perdute. Dal punto di vista descrittivo, queste ricerche tendono ad accreditare una concezione dell’etica basata su un senso morale di tipo humiano, rispetto al quale la ragione svolge una funzione meramente accessoria.

Ciò sembra suggerire una tesi non cognitivista, in base alla quale le qualità morali sarebbero nient’altro che il nostro modo di colorare soggettivamente fatti e relazioni del mondo naturale; in altri termini, le qualità morali sono nostre proiezioni emotive che illuminano una realtà moralmente neutra: non ci sono verità morali né valori oggettivi, la morale è un fatto puramente soggettivo. In questo quadro, i giudizi morali potrebbero avere un valore di verità, solo nel limitato senso per cui un certo tipo di reazione morale risulta più o meno conforme al senso morale della nostra società.
Dal punto di vista normativo, dato il salto esistente tra l’essere neurale e il dover essere morale, e dato che le nostre risposte morali automatiche dipendono da meccanismi evolutivi relativi a necessità e bisogni profondamente diversi dai nostri, questi risultati sembrano gettare un’ombra di inaffidabilità sulle nostre cosiddette intuizioni morali; secondo alcuni, esse non sono che meccanismi emotivi irrazionali, totalmente inaffidabili, che non reggono ad una considerazione razionale più attenta. Dovremmo pertanto modificare radicalmente il nostro modo di giudicare e di agire, perché quelle che oggi prendiamo per verità morali non sono altro che retaggi del tutto contingenti della nostra storia evolutiva.
Per stabilire se davvero dobbiamo considerare il nostro pensiero morale come largamente inattendibile e da rivoluzionare profondamente, occorre tenere presenti almeno i seguenti punti: 1) i sentimenti morali evolvono a loro volta sulla base dei bisogni sociali e delle concezioni fondamentali delle culture umane e non possono essere considerati dei semplici riflessi soggettivi; 2) ci sono evidenze che rendono plausibile pensare che le nostre reazioni emotive rivelino dei principi generali di una “grammatica morale” universale, secondo l’ipotesi che è stata avanzata da diversi ricercatori; 3) ci sono molte prove che le nostre reazioni emotive forniscono rilevanti vantaggi adattivi in vari contesti; 4) le emozioni sociali sembrano essere necessarie al fine di supportare l’agire umano nelle contesto delle relazioni interpersonali.
Tutto ciò non sembra militare in favore di una concezione radicalmente revisionista che sostituisca alle nostre intuizioni morali un modello puramente computazionale; occorre invece cercare un nuovo equilibrio tra la nostra natura sentimentale e i nostri processi razionali. La ricerca di questo nuovo modello comporta che si rifletta sui seguenti punti; a) sul ruolo dell’empatia come precondizione della capacità morale; b) sulla possibilità che i sentimenti morali rivelino aspetti oggettivi delle relazioni umane e perciò che l’enfasi sul ruolo delle emozioni non sia intrinsecamente legata ad una concezione non cognitivista; c) sui limiti entro cui, alla luce dei dati scientifici sui giudizi morali nei bambini autistici e nei soggetti sociopatici, si può ancor accettare la tradizionale concezione internalista del giudizio morale, secondo cui accettare un giudizio significa avere una ragione o un motivo per agire di conseguenza; d) sulle procedure di giustificazione morale che possono essere adottate alla luce del nuovo equilibrio tra componente emotiva e componente razionale della nostra facoltà morale.

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