di Matteo Motterlini e Roberto Burioni
Ora che il vaccino contro Covid-19 sta per essere approvato in Europa e negli Stati Uniti e la macchina organizzativa si sta mettendo in moto per renderlo disponibile, si pone la questione se le persone saranno disposte a farselo iniettare.
Accanto al problema scientifico della sua efficacia e affidabilità, e a quello logistico della sua distribuzione, il nuovo vaccino presenta una sfida formidabile anche a livello di comunicazione, affinché le persone siano persuase a farne uso.
I sondaggi a livello internazionale e in Italia dicono che non tutte le persone correranno a vaccinarsi non appena sarà data loro la possibilità, anzi. La scienza ci insegna che per raggiungere la tanto importante «immunità di gregge» una altissima percentuale della popolazione deve essere immune all’infezione virale. Ciononostante, un’indagine dell’Ipsos Global Advisor ha stimato che a livello mondiale, aggregando i singoli Paesi, il 26 per cento di adulti dichiara di non essere «affatto d’accordo» a farsi iniettare il vaccino per Covid-19 (in Italia il 34 per cento); il 37 per cento si dice «abbastanza d’accordo» (in Italia il 29 per cento), e solo il 37 per cento si dichiara «del tutto favorevole» (in Italia, identica percentuale).
Che fare? Da un punto di vista comportamentale, ci sono problemi distinti ma connessi che vanno affrontati perché la campagna vaccinale abbia speranze di successo.
Il primo è convincere a fare il vaccino: se non tutti, almeno chi è moderatamente contrario.
Il secondo è fare in modo che chi si dichiara favorevole al vaccino dia effettivamente seguito alle proprie intenzioni, ovvero si trovi nel luogo e all’ora stabilite per tirare su la manica della camicia e farsi fare l’iniezione. Dopotutto, l’intera vicenda del contenimento e della mitigazione della pandemia non è che una questione di comportamenti.
Allargando lo sguardo, il Covid-19 ha messo i nostri limiti cognitivi e le nostre fragilità emotive e motivazionali sotto una lente di ingrandimento. Un drammatico e involontario esperimento su scala planetaria che ha posto al centro della scena i nostri comportamenti. In ultima istanza, tutto dipende da loro: mettere le mascherine, lavarsi le mani, stare distanziati, e – adesso che sta per arrivare il momento – vaccinarsi.
Ecco allora che le scienze comportamentali (behavioral sciences) — già parte integrante del policy-making di un sempre crescente numero di Paesi ai vari angoli del globo e in Italia ancora irresponsabilmente sottovalutate — possono aiutarci in questo frangente cruciale.
Per quanto riguarda il primo problema, ossia la persuasione degli scettici, le scienze comportamentali ci suggeriscono che non dovremmo occuparci dei più strenui oppositori al vaccino (i cosiddetti no-vax), perché molto probabilmente non riusciremo in ogni caso a vincere la loro diffidenza ideologica , quantomeno, non nei tempi brevi richiesti per arrestare la pandemia.
Dovremmo piuttosto concentrarci sulla promozione di una comunicazione strategica e mirata per persuadere i «moderatamente contrari», gli «esitanti» e i «pigri».
Ciò consisterà innanzitutto nel fornire, fin dall’inizio, informazioni sull’efficacia del vaccino che siano semplici, comprensibili, trasparenti, univoche e non contraddittorie. La fonte di queste informazioni dovrà essere autorevole e istituzionale, e inequivocabilmente riconosciuta come tale.
Ma anche la migliore informazione non sarà comunque abbastanza per promuovere i comportamenti desiderati, se non sarà affiancata dalla cosiddetta «riprova sociale» (social proof). È noto che quando le persone non sanno cosa fare, tendono a fare quello che fanno gli altri; cercano cioè intorno a loro indizi e suggerimenti per il corso d’azione più appropriato. Per questo, occorre rendere saliente fin dall’inizio che la maggior parte delle persone è pronta a vaccinarsi, ovvero che stanno per farlo (o lo hanno già fatto) parenti, amici, conoscenti, personaggi pubblici e ovviamente i medici e le autorità scientifico-sanitarie.
Le istituzioni e i media dovranno perciò enfatizzare l’ampia adesione alla campagna vaccinale piuttosto che dare risalto ai detrattori. Più si riuscirà a mettere sotto i riflettori l’atto del vaccinarsi, meglio sarà per tutti. Ed è qui che leader, testimonial e coloro che dettano le mode possono esercitare la loro influenza. Più l’atto di vaccinarsi sarà reso pubblico, e più riusciremo ad allontanare il senso di disagio e di paura a esso associato.
Ciò vale nel mondo reale ma anche in quello virtuale degli «amici» e followers dei social network. Questi ultimi non possono essere solo luoghi di spaccio e diffusione incontrollata di fake news, stupidaggini e scontro ideologico; occorre anche sfruttare il loro potenziale d’influenza positivo. È noto il caso di Facebook che in più occasioni e in diversi Paesi ha istituito il pulsante «Io ho votato» durante le elezioni, portando così per emulazione molte persone — soprattutto giovani — alle urne. Chissà che non possa aiutare allo stesso modo uno sticker come «Io mi sono vaccinato» accanto al profilo dei nostri «amici» virtuali per darci la spinta a uscire di casa per farlo anche noi.
Non solo, ma se oltre a essere popolare, il vaccino apparirà anche un bene prezioso perché scarso (auspicandoci che non lo sia davvero!) e perciò ancora più desiderabile, tanto meglio. Quello della scarsità è un banale e diffusissimo trucco utilizzato dal marketing per rendere più pressante l’atto dell’acquisto (se avete provato a prenotare una camera d’albergo su booking.com sapete di cosa si tratta).
Il secondo problema è legato al primo, ma riguarda non tanto il convincere le persone a vaccinarsi, quanto l’accertarsi che – soprattutto per coloro che esitano – la decisione di farlo si traduca effettivamente in azione.
Lo scarto che intercorre tra ciò che ci prefiggiamo di fare e ciò che riusciamo davvero a fare è uno dei maggiori fattori di spreco – di tempo, di soldi, di salute – della nostra vita. Non solo la nostra mente è limitata, ma anche la nostra volontà! Un limite di cui potete avere immediata comprensione se anche voi siete tra coloro che pagano per non andare in palestra. Vale a dire se sottoscrivete un abbonamento alla palestra pianificando di fare esercizio fisico con costanza, per poi non far fede al vostro intento per pigrizia o inerzia. Un cortocircuito che si annida nella nostra incapacità di guardare realisticamente ai futuri noi stessi; e che può vanificare anche la migliore campagna vaccinale. Si stima infatti che due terzi di coloro che dichiarano che faranno esercizio fisico o si sottoporranno a un check-up medico, poi non lo fanno (per non parlare delle diete).
Tanto più che, da quanto si apprende, i vaccini di Pfizer e Moderna che saranno presto disponibili in Italia non prevedono una unica somministrazione, ma avranno bisogno di una seconda dose di richiamo a distanza di qualche settimana, il che aumenta evidentemente il rischio che le persone facciano la prima dose e non diano seguito con la seconda.
Come aiutare dunque le nostre migliori intenzioni a concretizzarsi? Anche qui le scienze comportamentali ci offrono una guida.
Ci invitano innanzitutto ad andare a EAST. Un acronimo che suggerisce che se si vuole che le persone facciano qualcosa, occore renderla facile (Easy), desiderabile (Attractive), popolare (Social) e tempestiva (Timely). Nello specifico della campagna vaccinale occorreranno maggiore programmazione, organizzazione e semplificazioni, e meno burocrazia.
In un mondo ideale non dovrebbe essere necessario riempire moduli complicati, il vaccino dovrebbe essere libero e disponibile a tutti, reperibile in modo semplice e iniettato con prontezza da personale riconoscibilmente esperto.
Per quanto riguarda il portare a termine piani che puntualmente non si concretizzano o si procrastinano (andare in palestra, mettersi a dieta, donare sangue, risparmiare), sono stati sperimentati vari interventi che hanno saputo dare buona prova di sé in anni recenti. In generale si è visto che costruirsi mentalmente un piano d’implementazione dell’azione porta più probabilmente le persone a seguirlo effettivamente (per una questione di coerenza con se stessi); è però importante che il piano non sia vago, ma preciso, puntuale ed estremamente realistico («quel dato giorno, alla data ora, in quel dato luogo, con un dato mezzo di trasporto … mi recherò a fare il vaccino»).
A questo proposito può essere appropriato inviare una lettera a domicilio chiedendo alle persone di considerare un piano di questo tipo, proprio come è stato fatto durante le elezioni americane con esiti significativi per portare più cittadini americani alle urne. Un’indagine recentissima ha mostrato inoltre che informare le persone che hanno già un appuntamento fissato per la vaccinazione influenzale incrementa sensibilmente l’adesione (addirittura del 36 per cento); molto più che semplicemente ricordare loro di prendere un appuntamento. Anche ricordare l’appuntamento con un Sms o una telefonata (giorni prima e fino all’ultimo minuto) ha mostrato un’efficacia nell’ordine del 10 per cento.
In ultimo, si noti che se l’obiettivo è ottenere una risposta collaborativa da parte dei cittadini non si dovrà forzare loro la mano paventando l’obbligatorietà della vaccinazione: ciò non farà che aumentare timori, cattivi pensieri ed esitazione. Occorre piuttosto creare un piano inclinato nella giusta direzione, attraverso una comunicazione trasparente e autorevole, e soprattutto realizzando le condizioni per semplificare al massimo il corso d’azione più favorevole.
* Matteo Motterlini è professore ordinario di Filosofia della scienza all’Università Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.
** Roberto Burioni professore ordinario di Microbiologia e Virologia all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano